Gli ebrei un simbolo di Ernst Bloch

Gli ebrei un simbolo di Ernst Bloch

Gli anni immediatamente successivi alla fine della Prima guerra mondiale, con il suo corredo di tragedie e di lutti, sono stati in Germania particolarmente fecondi di riflessioni teoriche e filosofiche tutte orbitanti, in fondo, intorno al dramma che ha visto il Secondo Reich collassare su tutti i suoi morti e le distruzioni belliche, e che ha imposto la necessità di un ripensamento radicale della propria esistenza e della propria storia; si pensi – tanto per fare degli esempi – a Essere e tempo di Heidegger, a Teologia politica di Carl Schmitt, o alla Lettera ai Romani di Karl Barth; o anche – per scendere più nel merito ebraico-tedesco – alla Stella della redenzione di Franz Rosenzweig (che traccia un’affascinante parabola filosofico-fenomenologica dell’esistenza ebraica compresa tra il punto di partenza segnato “dalla morte” fino al punto d’arrivo, la “Porta” – così si chiama l’ultimo capitolo dell’opera – che dà “sulla vita”).

Ernst Bloch

Anche il giovane filosofo ebraico-tedesco Ernst Bloch non è da meno in questa temperie intellettuale, e concepisce, già durante gli anni del conflitto, un ambizioso progetto filosofico cui dà il nome di “Sistema del messianesimo teoretico” e il titolo di Spirito dell’Utopia: un libro uscito proprio nel 1918, sulla scorta di un’urgenza filosofica che in Bloch è anche esistenziale, segnata dalla necessità di una nuova “apocalisse” filosofica (parola che ricorre spesso nell’opera) che si contrapponga a quella reale.

Il testo, successivamente rivisto dall’autore e fatto uscire in una nuova edizione cinque anni dopo, appartiene ormai al canone, si potrebbe dire, di un certo messianismo rivoluzionario di cui fanno parte anche, in forme diverse, il Benjamin dei primi anni Venti o il Lukács di Storia e coscienza di classe; e risulta un testo complesso e stratificato, di non facile lettura. A complicare ulteriormente le cose interviene anche la rapidità e intensità con cui Bloch rivede le sue pagine, rifondendo capitoli, espungendo singole parti (ma non completamente), riformulando certe affermazioni mutandole perfino di segno: una delle cruces filologiche più complesse, come ben sanno gli studiosi del filosofo, riguarda appunto le differenze tra la prima versione dello Spirito dell’utopia e le sue successive versioni.

Nell’edizione del 1918 campeggiava un capitolo, dal titolo Symbol: die Juden, che invece scompare in quanto tale nel testo rimaneggiato del 1923 (anche se parecchie delle sue argomentazioni ritornano in quella nuova edizione in un capitolo dal titolo totalmente diverso), mentre riappare in una raccolta di saggi di Bloch dello stesso anno.

Il testo si presenta dunque, oltre che teoreticamente assai oscuro e impegnativo, come un complesso cantiere testuale; ed è un merito assoluto del curatore di questo volume presentarlo ora in forma autonoma e in traduzione italiana presso i tipi della Morcelliana. Gianfranco Bonola è figura nota agli studiosi, perché ha sempre abbinato a una accurata ricerca filologica e storico-filosofica una acuta e consapevole prassi traduttiva (sua è per esempio la traduzione della Stella rosenzweighiana, o la mirabile cura, insieme a Michele Ranchetti, delle benjaminiane Tesi sul concetto di storia); per cui non può sorprendere ora l’uscita in forma autonoma di questo capitolo blochiano.

 

Gli ebrei un simbolo

Il testo infatti si presenta con la grande precisione offerta da una ampia introduzione (La nascita dell’utopia dallo spirito dell’ebraismo, pp. 7-54), dal testo originale a fronte con la traduzione, ampiamente commentata con un occhio costante alle diverse versioni, da parte del curatore; e infine da un’antologia di materiali intorno al testo, tratti da una tarda intervista rilasciata dal filosofo e da diversi passi del suo ricco epistolario, che arricchiscono e definiscono il quadro interpretativo complessivo.

Il volume insomma, nonostante il piccolo formato, esibisce tutti i crismi dell’edizione critica – e in tal senso rappresenta uno strumento indispensabile per gli studiosi del periodo e degli scritti giovanili blochiani, costituendo un riferimento imprescindibile per fare chiarezza intorno a un momento centrale della sua riflessione, alla luce di una messa a punto storico-filologica impeccabile, che toglie di mezzo diversi equivoci interpretativi (in cui anche chi scrive era caduto: la presente valga dunque anche da auto-emendazione).

Però, è un testo, questo di Bloch, che presenta indubbi elementi di interesse anche per un lettore interessato alle questioni legate all’ebraismo tedesco nella sua fase più articolata, quella dell’età weimariana: una fase affollatissima di personaggi singolari, che declinano in forme sempre diverse, talvolta scandalose o molto eccentriche, la loro appartenenza alla religione “mosaica” e che hanno vissuto la loro giovinezza tra Secondo Reich, Grande Guerra e neonata Repubblica: personaggi che si sentono costantemente in dovere di rivendicare il proprio ebraismo come qualcosa di ogni volta profondamente specifico ed allo stesso tempo universale tratto distintivo e riconoscitivo. Un lettore attento e molto critico come il giovane Scholem, ad esempio (che aveva conosciuto Bloch attraverso gli altrettanti critici, ma più empatici resoconti di Benjamin, e di persona anche nel corso del comune esilio svizzero) era rimasto infatti molto negativamente impressionato da questo capitolo sugli ebrei.

In una lunga lettera all’amico Benjamin, infatti, Scholem esplicita i suoi sospetti, sia accusando l’autore di scarsa attenzione alle fonti (cosa assolutamente vera), sia ascrivendo i suoi giudizi – del tutto giustamente, anche qui – a quello che definisce “lo stigma di Praga” (con ciò intendendo la rinascita dell’ebraismo per come promanava, nei primi anni del secolo, dal circolo giovanile Bar Kochba attivo nella capitale boema, e per come tale rinascita era stata ben presto egemonizzata dal lessico magnetico e carismatico di Martin Buber, che aveva in sostanza declinato tali meccanismi neo-identitari in una chiave nietzschiana particolarmente brillante ma anche fin troppo ricca di pathos, nel sottolinearne la fondativa mistica del sangue e del suolo).

Inoltre – e questo è il cuore della critica scholemiana – Bloch ha avuto la colpa di declinare l’identità ebraica nella chiave di una “fondamentale cristologia”, il che porta Scholem a un giudizio inesorabile, che ha il sapore della vera e propria invettiva: “È per me inaccettabile concepire in qualsiasi senso il corpus Christi come la sostanza della nostra storia”.

Nel rivendicare l’autonomia filosofica del proprio percorso identitario di ebreo tedesco (“la sostanza della nostra storia”) Scholem ha così il pregio di cogliere la prestazione filosofica fondamentale cui questo testo blochiano attende: cioè quello di declinare – per dirla con le parole dello stesso Bonola – “l’incontro ebraico con Gesù, un tempo fallito, […] divenuto ora possibile, […] perché anche la sua figura e il suo ruolo nella storia universale hanno subito un forte ridimensionamento: la coscienza che la redenzione non è ancora avvenuta, l’inefficacia del suo operato e la cristianizzazione mai riuscita del mondo lasciano intravedere una nuova prospettiva oltre Gesù, esigono il rilancio della speranza verso l’ignoto, in direzione di un ultimo Cristo, ancora sconosciuto” (p. 17).

Con ciò Bonola delinea effettivamente il rischioso e paradossale percorso di individuazione dell’ebraico intrapreso da Bloch: un percorso stretto tra l’assimilazione borghese alla società tedesca del tempo, e la rivendicazione neo-statuale di una patria declinata in senso sionistico. Bloch privilegia invece una lettura degli “ebrei” come un’essenza metafisica racchiusa in una nostalgia teologica per colui che chiama “il Mediatore” – dietro al quale ovviamente si trova la figura di Gesù, riletta però alla luce del misticismo slavo-orientale e di quello alto-tedesco, più che di un qualche specifico ebraico: “l’ebraismo insieme al germanesimo – scrive infatti Bloch in conclusione – deve ancora una volta significare un che di ultimo, di gotico, di barocco, per preparare in questo modo, uniti con la Russia, questo terzo recipiente dell’attesa, della gestazione di Dio e del messianismo” (p. 119).

In questo modo, si potrebbe concludere, il modo di essere ebraico si pone al servizio, agli occhi del giovane Bloch, di una escatologia e di una utopia politico-filosofiche che si nutrono più del mistero che dell’attesa messianica specificamente ebraica, e che in tal senso – aveva ragione Scholem – costituiscono un’immagine fantasmatica dell’ebreo che, prima di essere “simbolica”, risulta proiettiva delle rutilanti “visioni” del cosmo filosofico blochiano. Questo capitolo sugli ebrei, insomma, si mostra come il nucleo teoreticamente ardente di un espressionismo filosofico che deliberatamente si disinteressa delle intricate questioni storico-filologiche connesse al delicato rapporto storico e dogmatico tra ebraismo e cristianesimo, delineandosi come un prezioso documento intorno alle problematiche davvero urgenti del Deutsch-Judentum del tempo.

Gabriele Guerra
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Gli ebrei un simbolo Informazioni bibliografiche

  • Ernst Bloch, Gli ebrei, un simbolo. Ebraismo e cristianesimo, messia e apocalisse, a cura di Gianfranco Bonola. Edito da Morcellana, 2020, 248 pp. Vedi la scheda del libro.

 

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